mercoledì 11 marzo 2009

Hervé Ingrand / Showroom

Hervé Ingrand / Showroom
Napoli, Raucci/Santamaria

L’atelier, laboratorio dell’artista, open space di memorie e creazioni. Gli oggetti, ricercati e funzionali. Due modi diversi di fare arte. Con un occhio puntato alle collezioni di famiglia e uno verso il passato. Con un po’ di revisionismo...

Ritorno alle origini per la Galleria Raucci/Santamaria, che ha optato per uno sdoppiamento di generi insolito rispetto alla pratica espositiva a due. Se lo spazio maggiore è dedicato alle opere di Hervé Ingrand, quello più piccolo è arredato con oggetti, mobili, lampade e stampe che i due galleristi hanno raccolto in trent’anni di appassionata ricerca.
Showroom prende infatti le mosse dalla prima attività svolta dalla coppia, improntata a un commercio di oggetti realizzati da apprezzati designer italiani. Scorrono i nomi ormai storici di Ettore Sottsass con Hollywood, un vaso dalle forme vagamente futuriste; Gianfranco Frattini, autore di un mobile polimaterico in palissandro, plastica, vetro e inserti in acciaio degli anni ’60; Alvino Bagni e le sue ceramiche dagli intensi toni blu, che evocano gli abissi marini; Ludovico Diaz de Santillana e Sergio Billiotti, fondatori nel 1965 della casa di produzione di vetri per l'illuminazione e decorativi Veart.
Si battono i tempi della creatività, quando tra gli anni ’50 e gli ’80 si esce dall’Italia degli artigiani per entrare in quella del marchio “made in Italy”, esportato al di fuori dei confini nazionali; si passa agli architetti ideatori di raffinati elementi che, oltre ad avere un uso funzionale, si arricchiscono di un’estetica basata sulla sperimentazione dei materiali, in accordo talvolta con gli esiti della ricerca artistica, com’è il caso del tessuto in seta disegnato da Lucio Fontana e prodotto dalla Manifattura Jsa.
Una ripetizione dello stesso tema, con un modello unico - il proprio “studio d’artista” - riguarda invece Hervé Ingrand (Parigi, 1972), che mescola le carte di opere realizzate in passato -ma mai esposte- e di nuovi interventi realizzati su di esse, attraverso la sovrapposizione della scritta “Ein” a vari caratteri topografici e, in certi casi, con l’aggiunta di una nuova cornice.
Una cifra, il numero 1, che quasi ossessivamente ricorre non a caso in undici tele, ambientate nel suo atelier, e nel suono tipico utilizzato dagli abitanti della Francia settentrionale come esclamazione quando non si è compreso quanto detto dall’interlocutore, che suona come una storpiatura.
I due elementi si fondono con la ricerca di un promemoria. È la Pense-bête, dal nome dell’opera di Marcel Broodthaers, che nel ‘64 aveva raccolto una cinquantina di volumi invenduti del proprio poema, bloccandoli in una colata di gesso; ed è anche un nodo in cima al fazzoletto appartenuto al nonno di Ingrand, a cui è dedicata la mostra in questa sua nuova fase creativa: “Sono passato alla fase del risparmio energetico, non produco così tanto; il meno possibile”.

Il nodo al tessuto è un monito per non dimenticare il passato, senza stravolgerlo e anzi innovando, magari passando al grande formato delle figure dai richiami a Georg Baselitz di Complot Cabane (2002), finora inedito.
Prima di uscire, si sente stridere qualcosa. Ein? Cosa? Niente paura, è La boîte à ein, una scatolina dal gracchiante sound.

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